queste incredibili foto vi faranno venire voglia tornare indietro nel tempo
Keith Haring, Liza Minnelli, Andy Warhol, Michael Jackson, Elton John, Elio Fiorucci: foto dei decenni d'oro della club culture.
Tutto è iniziato negli anni '60 a New York, in uno dei luoghi simbolo per le subculture di questa città: l’Electric Circus. Non un semplice locale notturno, ma una sorta di portale d’accesso a un mondo sconosciuto ai più, in cui il ballo non è solo divertimento collettivo, ma un momento condiviso di espressione della propria identità culturale, sociale e di genere.
Lì, l’unica regola era l’assenza di regole: piena libertà, che si traduceva poi in un vortice fantastico di luci, suoni e colori in cui immergersi ed esplorare se stessi e gli altri, al di là dei limiti che il mondo esterno impone quotidianamente. Succedeva di tutto: danza, performance, canto, happening, teatro dell’arte, ricerca musicale, creazioni d’avanguardia e sperimentazione sfrenata.
Passano pochi anni e quella tendenza attraversa l'oceano e si infiltra nel sottosuolo europeo, dove trova nuovo spazio espressivo in altri microcosmi, come il Piper di Torino, lo Space Electronic di Firenze e il Bamba Issa di Forte dei Marmi, che segnano gli anni d’oro del clubbing italiano di cui si fecero portavoce i membri del gruppo dei Radicali, del Gruppo UFO e del Gruppo 9999.

Arrivano così gli anni '70, che vogliono dire solo una cosa: disco music. Sotto l’impulso tutto glitter e lustrini di questo genere, all’apice della sua evoluzione la club culture rinasce e inizia la sua seconda vita. Il dancefloor diventa un palcoscenico dove chiunque può trovare il proprio spazio e dare libero sfogo alla creatività.
È in questo momento che nascono il Les Bains Douches (1978) a Parigi e il leggendario Studio 54 (1977-80) a New York, dove si incontravano gli idoli del momento, come Elizabeth Taylor, Liza Minnelli, Andy Warhol, John Travolta, Michael Jackson, Elton John, Elio Fiorucci, Tom Ford; protagonisti di feste sfrenate e sfavillanti, passate alla storia e immortalate da fotografie che fanno venire una voglia irresistibile di salire su una macchina del tempo, mollare tutto e tuffarsi in quegli anni per non tornare mai più indietro.

Ed è proprio questa la sensazione che avrete visitando la mostra Night Fever. Designing Club Culture 1960 - Today al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci (Prato), dal 7 giugno al 6 ottobre 2019. Film, fotografie d'epoca, manifesti, abiti, opere d’arte, copertine di dischi, installazioni luminose e sonore vi prenderanno per mano per guidarvi in un’esperienza immersiva nel glamour, nelle sperimentazioni della club culture. Ma non si tratta di una mera operazione nostalgica, ed è questo intento il valore aggiunto dell’esposizione. Night Fever struttura infatti un serrato dialogo tra passato e presente, tra storia e contemporaneità, seguendo un percorso cronologico per indagare le radici di quella che è la club culture oggi.

Il titolo vuole proprio chiarire questo intento: il film omonimo (in italiano La febbre del sabato sera, John Badham, 1977) è un omaggio alla disco music, riprendendo la portata simbolica di un movimento che non fu solo artistico, musicale ed estetico, ma anche e soprattutto sociale e identitario (pensiamo qui alle scene degli scontri tra bande etniche). La disco music, infatti, illuminò gli angoli bui popolati da chi veniva marginalizzato dalla cultura dominante eterosessuale e bianca, infrangendo le barriere del razzismo per unire in un solo dancefloor le comunità LGBTQ+, nera e latinoamericana: quella era la loro musica, quelli erano i loro luoghi, quella era la loro identità. Pian piano, la disco music esce dalla propria nicchia e arriva in locali come il Paradise Garage - gay club a metà strada tra l’underground e la cultura di massa -, per poi approdare ai grandissimi numeri. Ma non è stato un percorso facile: più si espandeva, più una certa parte benpensante e bigotta della società si irrigidiva nei confronti della disco music e della sua portata simbolica, dando forma a contro-movimenti come la Disco Demolition Night di Chicago (1979) dalla connotazione fortemente omofobica e razzista.

Eppure, a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 la club culture non si è mai fermata e ha continuato a espandersi, trovando nel connubio con l’arte contemporanea la sua dimensione ideale: il Mudd Club e l’Area a New York, mentre il Blitz e ilTaboo a Londra furono una seconda casa di personalità allora emergenti come Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e i New Romantics. La svolta arriva negli anni ‘80, con l’ultimo grande movimento della dance music: la rave culture, che negli anni Novanta ha letteralmente conquistato l’intera scena berlinese, declinandola nella cosiddetta cultura del muro. Nomi come il Tresor (1991) e il Berghain (2004) vi saranno sicuramente noti, e nascono proprio da quella filosofia: riqualificazione di luoghi abbandonati e deteriorati, che tornano in vita grazie a una scena disco vivacissima.

E oggi che cosa ne è della club culture? Nonostante le difficoltà degli anni '00 che hanno ridotto molti club a cadaveri urbani, intrisi di nostalgia ed edonismo sbiadito, brand e festival globali stanno investendo molto per tenere viva la scena, e con successo, affiancati da architetti illuminati sotto l’egida di Rem Koolhaas. La club culture oggi continua a essere il luogo per eccellenza in cui razzismo e omofobia non si sa neanche che cosa siano, se non concetti da mettere in discussione, così come tutti i codici prestabiliti del divertimento. La club culture di oggi rimane fedele al motivo per cui è nata: creare nuovi modi di condivisione e nuovi mondi di libertà, dove sperimentare senza limiti stili di vita e filosofie alternative, tra design, grafica, moda, suoni e luci e, soprattutto, dove esprimere se stessi.
La mostra Night Fever. Designing Club Culture 1960 - Today è visitabile dal 7 giugno al 6 ottobre 2019 presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci (Prato).






Segui i-D su Instagram e Facebook
Se il clubbing vi fa perdere la testa, qui un altro contenuto che siamo certi vi piacerà: