Inquietanti autoritratti scattati attraverso le telecamere di sorveglianza
"La gente installa videocamere e poi se ne dimentica. A volte passano decenni e queste continuano a fissare un muro. Cercando di proteggere qualcosa, i proprietari fanno l'esatto opposto: aprono una finestra online potenzialmente accessibile a chiunque."
Self Portrait from Surveillance Camera 2018, stampa inkjet su carta Hahnemühle, 27x36 cm
Una piscina vuota, un silos, la navata di una basilica, una spiaggia deserta. A guardarlo oggi, dallo schermo di uno smartphone mentre siamo chiusi ermeticamente in casa, il lavoro di Irene Fenara suggerisce incipit di storie, fughe e intrusioni immaginarie in mondi lontani. In realtà quelli che vediamo sono frame di videocamere di sorveglianza, risultato di un work in progress al quale l’artista, classe 1990, ha dedicato gli ultimi quattro anni, accedendo silenziosamente a sistemi privati in remoto, dalla sua stanza. Il risultato è un archivio, una parte del quale visibile su Instagram, un viaggio attraverso luoghi osservati dall’occhio sintetico di dispositivi disseminati in tutto il globo, spesso accesi poi dimenticati, obsoleti.
proDopo una laurea in Scultura e una seconda in Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Irene Fenara ha iniziato a sperimentare con il medium fotografico. Da sempre interessata al rapporto tra materiale e immateriale, ha cominciato dalle Polaroid, per poi interessarsi all’esatto opposto preservando dall’oblio frame di video che sarebbero andati distrutti dopo 24 ore. Accesso dopo accesso, ha accumulato migliaia di immagini, visioni sintetiche interrotte o ridotte da ostacoli piazzati davanti alla telecamera, autoritratti in cui è lei stessa a sfidare le regole coercitive del controllo. Parte, negli ultimi anni, di mostre al MAXXI, a Palazzo Reale, all’Osservatorio Fondazione Prada, ci parla ora di digital surveillance, controllo e poteri di algoritmi generativi.


Droni e videocamere mostrano sempre più spesso piazze e strade deserte, in che modo ti ha influenzato vedere questi panorami?
Ho sempre mostrato un mondo vuoto perché mi interessava la visione della macchina al di là di qualsiasi componente umana. Ora che lo spazio pubblico è realmente vuoto, nel mio lavoro vado in cerca di persone, allineando il mio sguardo a quello di tecnologie adibite alla restrizione di una pandemia. È stata fatta la scelta di ricorrere ai dati delle reti cellulari per sorvegliare gli spostamenti delle persone, ormai è noto. Il timore è che nell’emergenza si prendano provvedimenti per i quali è difficile prevedere tutte le possibili conseguenze.
L’isolamento domiciliare è un presente che ci accomuna. Hai spesso lavorato in remoto, dalla tua stanza. Tracceresti una mappa dei luoghi che sei riuscita ad attraversare senza varcare la soglia di casa?
Le immagini che ho raccolto dai quattro angoli del globo sono migliaia. Quattro anni fa ho scoperto che riuscivo a muovere una videocamera di sorveglianza dalla mia camera. Da allora ho intravisto, tra gli altri panorami, dalla Cina all’Alaska, dal Canada alla Russia, cortili, cancelli privati, spiagge, fattorie, autolavaggi, chiese, fermate dell’autobus, strade, silos. Solitamente scrivo dove si trovano i luoghi solo su Instagram, mi interessa, in un certo senso, ingannare il locative media e localizzarmi in un posto, anche se non mi sono mai mossa dalla mia scrivania. Mi piace riflettere sulla rappresentazione della mobilità connessa a queste app, uno spazio ibrido reale virtuale.


Ti ricordi la prima volta che hai hackerato una videocamera di sorveglianza?
Sì, era un video che ho realizzato nel 2016 io cercavo di vedere una porzione di cielo, la telecamera tornava a inquadrare i soliti punti che doveva controllare. È stata quasi una lotta tra me e la macchina. In realtà, poi, non è un vero e proprio hackeraggio, ma qualcosa di più semplice. È come fare un login. La gente di solito non cambia codici di sicurezza, installa videocamere e non ci fa più caso. A volte passano decenni e queste continuano a fissare un muro, uno spigolo. L’aspetto paradossale è che cercando di proteggere qualcosa i proprietari fanno l’esatto opposto: aprono una finestra online potenzialmente accessibile a chiunque abbia una connessione.
Nella comunità artistica sempre più spesso si parla di digital surveillance, privacy, controllo. Come hai affrontato il tema?
Ho letto molti libri sull’argomento. Quello che ho notato è che, nella maggior parte dei casi, l’automazione della macchina diventa visuale in quanto molti dispositivi hanno incorporata una videocamera. Tutto ciò ci porta a riflettere su cosa sia la privacy. Nel mio lavoro, per esempio, utilizzo telecamere installate in luoghi privati che, però, intercettano movimenti sul suolo pubblico. Io non potrei accedere, ma i privati non potrebbero riprendere le strade. C’è un vuoto regolamentativo in merito, e io agisco proprio dentro quel vuoto.


È così anche per gli autoritratti?
Sì, ma in quel caso fisso la videocamera come una forma di resistenza, di sfida. È un capovolgimento di prospettiva, sono consapevole che qualcuno o qualcosa sta catturando la mia immagine. È stato anche uno strano modo di viaggiare, andare fisicamente in luoghi che erano stati per me solo virtuali. In qualche modo già li conoscevo, ne avevo fatto esperienza.
Credi che filtri ed esperienze digitali influenzino l’occhio umano?
Certo. I dispositivi tecnologici, sempre in evoluzione, ci possono aiutare a dissuadere l’occhio da qualcosa che abbiamo visto e rivisto troppe volte. Adottare una prospettiva apparentemente lontana ci abitua a vedere in maniera diversa e, quindi, anche a pensare in modo diverso.
Di recente hai lavorato con algoritmi generativi, perché?
Volevo fare innanzitutto un parallelismo linguistico e parlare di generazione e riproduzione sia in termini digitali che in termini naturali. Quello che mi interessava era creare un’analogia. Riflettere sulla riproduzione di immagini, e sul proliferare di copie di elementi che nel nostro ecosistema stanno scomparendo. È uno spunto interessante. Sai che, per esempio che le tigri, così comuni raffigurate in loghi, illustrazioni e disegni sono, in natura, solo meno di 4000 esemplari?


Segui i-D su Instagram e Facebook
Leggi anche: